Danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro domestico

 
R.G.N. 2365/2012
Cron. 24471
Rep.
Ud. 19/09/2014
PU

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ALFONSO AMATUCCI – Presidente
Dott. ROBERTA VIVALDI – Consigliere
Dott. PAOLO D’AMICO – Consigliere
Dott. ENZO VINCENTI – Consigliere
Dott. MARCO ROSSETTO – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

Sentenza

sul ricorso 2365-2012 proposto da:
[omissis], [omissis] elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FONTANELLA BORGHESE 72, presso lo studio dell’avvocato PAOLO VOLTAGGIO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSIO MOROSIN giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

[omissis] in persona dei legali rappresentanti pro tempore, [omissis]

[omissis]

3. Il terzo motivo di ricorso

3.1. Col terzo motivo di ricorso ambedue i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. (si assumono violati gli artt. 1223, 1226 e 2043 c.c.); sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Espongono, al riguardo, di avere domandato tra l’altro il risarcimento del danno economico consistito nella perdita del lavoro domestico.
Assumono che il sig. [omissis] fu costretto ad astenersi dal lavoro domestico a causa della malattica causata dall’infortunio; e che la sig.a fu costretta ad astenervisi per la necessità di accudire il marito.
La Corte d’appello ha negato sia al marito, sia alla moglie, il risarcimento del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico. Al marito l’ha negato sul presupposto che “non rientra nell’ordine naturale delle cose che [Il lavoro domestico venga svolto] da un uomo”.
Alla moglie l’ha negato su presupposto che il non essersi potuta occupare dei figli per badare al marito è pregiudizio che rientra nel danno non patrimoniale; e che comunque mancava la prova che l’esigenza di accudire il marito l’avesse distolta “completamente e quotidianamente” dalle occupazioni domestiche.
Assumono ora i ricorrenti che tali motivazioni siano illogiche, e comunque lesive degli artt. 1226 e 2043 c.c..

3.2. Con riferimento a tale motivo deve, in primo luogo, rigettarsi l’eccezione di giudicato sollevata dalla [omissis] a pag. 15 del controricorso.
Dalla sentenza impugnata risulta infatti che il capo della sentenza di primo grado che rigettò la domanda di risarcimento del danno da perdita del lavoro domestico fu debitamente appellato (pag. 5, secondo capoverso della sentenza d’appello). Il relativo thema decidendum è dunque rimasto “vivo” in grado d’appello.

3.3. Nel merito il motivo è fondato con riferimento a tutti e due i ricorrenti, ed a tutti e due i vizi che hanno denunciato.

3.4. Per quanto concerne la posizione del sig. [omissis] sussiste il lamentato vizio di motivazione, sotto il profilo della contradditorietà.
La Corte d’appello, infatti, dopo aver affermato – correttamente – che il lavoro domestico è una utilità suscettibile di valutazione conomica, e che la perduta possibilità di svolgerlo costituisce un danno risarcibile, ha nel caso di specie negato che l’attore avesse patito tale danno, sul presupposto che “non rientra nell’ordine naturale delle cose che [Il lavoro domestico venga svolto] da un uomo”.
Tale motivazione è illogica per tre ragioni.

3.4.2. La prima ragione di illogicità è che (a prescindere da qualsiasi considerazione circa l’esistenza o meno d’un ordine “naturale” delle cose: felix qui potuit rerum cognoscere causas) non è certo madre natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche tra i coniugi. tale riparto è ovviamente frutto di scelte soggettive e di costumi sociali, le une e gli altri nemmeno presi in considerazione dalla Corte d’appello.

3.4.3. La seconda ragione di illogicità consiste nel fatto che l’affermazione della Corte d’appello è contraria al fondamentale principo giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dai commi 1 e 3 dell’art. 143 c.c.: ed in mancanza di prove contrarie, che sarebbe stato onere dei convenuti addurre e che non furono addotte, è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che il contrario.

3.4.4. La terza ragione di illogicità della motivazione della Corte d’appello consiste nel fatto che secondo l’id quod plerumque accidit qualunque persona non può fare a meno di occuparsi di una certa aliquota del lavoro domestico: non foss’altro per quanto attiene le proprie personali esigenze.
Pertanto dal fatto noto che una persona sia rimasta vittima di lesioni che l’abbiano costretta ad un lungo periodo di rilevante invalidità, è possibile risalire al fatto ignorato che a causa dell’invalidità non abbia potuto attendere al ménage familiare. La Corte d’appello, invece, ha capovolto tale deduzione logica, assumendo che dal fatto noto del sesso (maschile) dell’infortunato fosse possibile risalire al fatto ignorato che egli si disinteressasse completamente di qualsiasi attività domestica.

[omissis]

la Corte di cassazione:
-) accoglie il terzo motivo del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Venezia in differente composizione;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, addì 19 settembre 2014.

Il consigliere estensore
(Marco Rossetti)

Il Presidente
(Alfonso Amatucci)